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Babilonia

La notte aveva fatto posto ai primi raggi di luce colorando l'aria a oriente e lasciando ancora addormentato il cielo dall'altra parte. In una pista circondata dal deserto, la pancia sicura di un aereo aveva partorito giovani già diventati soldati, operatori di pace in divisa da guerra. In fila l'uno dietro all'altro cominciarono a uscire, assordati dal frastuono provocato dal rollio dei motori, con il casco ben stretto al mento per proteggere la testa rasata e senza capelli, tutti quanti ben avvolti nei giubbotti antiproiettili. Anche lui scese, con lo zaino sulle spalle e il fucile in mano, mostrando sicurezza per la sua prima missione, che sarebbe stata anche l'ultima. Non appena messo il piede sulla terra arida e secca, Lei, Colei che taglia tutti i legami, gli aveva già messo gli occhi addosso, legandolo a sé in modo da poter tornare a prenderselo dopo qualche mese. Quando sarebbe stato il momento giusto. Fu in un giorno come gli altri, nato sotto un orizzonte chiuso da rumori di guerra e da tristi lamenti funebri che incitavano alla vendetta. Dal deserto soffiava un vento foltissimo, caldo come il fuoco. Un vento abituato a portarsi dietro cespugli di spine e mulinelli di sabbia fine e appuntita. Una sabbia folle che in pochissimo tempo si era già trasformata in bufera, oscurando il sole e facendo calare la notte di nuovo. Sotto l'ombra lunga della Zigurrat stava Lei, Colei che ombra non fa, aspettandolo per potergli sedere a fianco, con le forbici ben affilate, pronta a tagliargli il filo, non appena l'ultimo granello di sabbia fosse caduto nella clessidra che misura il tempo. Questa volta Lei, Colei che ha mille e una maschera, assunse la forma di una bomba costruita velocemente con l'odio e la disperazione. Lui sentì un brivido freddo, simile a un soffio di vento gelato che scende da una montagna innevata. Un taglio netto, senza pietà. A lui, come agli altri quando suona la campana per partire. A lui, che si era messo quella divisa militare non per caso, ma per bisogno. A lui, che senza dubbi salì su l'aereo mosso dal petrolio raffinato vicino a casa sua. A lui, che da quel parto nella pianura sperduta in mezzo al deserto, già segnato e senza camicia (1) ne uscì. Quando ormai tutto il sangue fu versato, bagnando una sabbia sempre più rossa, gli porse la mano Lei, Colei che sempre ha avuto la faccia di un soldato partito da casa e mai tornato, per andare insieme verso la torre dove il cielo e la terra si incontrano insieme a tutte le lingue del mondo. Una volta arrivati, con la mano nella mano presero per una scalinata lunga che ai lati aveva due muri alti di pietra bianca, pieni zeppi di parole scritte. Si trattava dei racconti e dei versi degli uomini e delle donne che erano passati lì. Le vite, i piaceri e i dolori, i ricordi di tutte le genti del mondo. Le avventure nate e morte sotto l'ombra di quella stessa torre, ricchezza e colpa degli uomini, destinati a non capirsi mai fino all'ora della partenza per la scalinata lunga che al di là conduce. Con calma si mise a leggere, imparando tutte le lingue che ormai non gli erano più straniere. Ogni racconto o poesia nuova cominciava con l'ultima parola del verso precedente, come se tutte le storie diventassero una e come se, per il momento, finissero col muro ancora bianco che stava aspettando proprio lui. Lei, Colei che taglia le gambe al tempo se ne ritornò giù a prendere chi, dopo di lui, avrebbe dovuto continuare la storia delle storie, lasciandolo lì, fermo, davanti all'ultimo racconto, scritto dalla mano di una donna uccisa mentre prendeva acqua da una vecchia fontana: «Una volta questa fontana era conosciuta in tutto il mondo e nominata dalle voci più belle che ci abbia mai donato Allah, sempre santo sia il suo nome. La cantarono i Ruat del deserto sterminato, quando seduti attorno al fuoco, aspettavano la luce della luna. Ne scrissero i poeti della corte del palazzo reale che, accompagnati dal suono pulito del liuto, si lasciavano rubare i versi da un vento razziatore che dava vita ai monti di sabbia. Da quella fontana sgorgava un'acqua dolce e cristallina, come quella che scorre nel Kawthar. Toglieva la sete e restituiva il raziocinio agli uomini. Era una sorgente infinita, utilizzata dagli antichi per irrigare gli orti più belli e più grandi mai visti. Allora la terra era simile a un tappeto con mille e un fiore, e il mondo era ricco di ogni tipo di frutto dolce e saporito. Adesso beviamo le putride sanie e il frutto amaro dell'albero dello Zaqum mangiamo, perché le piante sono secche e sterili, a causa dell'acqua che è diventata salata per le lacrime versate dalle persone abituate ormai alla disperazione. Disperazione... La stessa disperazione che oggi accompagna le genti della nazione dove tramonta il sole, fatta da bocche che bevono lacrime che fanno male come sale in una ferita aperta, in una cicatrice vecchia e mai guarita. Un pianto infinito, che vien fuori dagli occhi gonfi e stanchi di guardare e cercare di capire quello che rimane di un figlio, un fidanzato, un amico. Una bandiera ben piegata, una medaglia a forma di croce, un cappello appoggiato; una piccola ricompensa per comprare i fiori migliori da portare in cimitero sulla lapide di marmo freddo in mezzo ad altre mille; un lumino acceso perché gli sia compagno nella notte nera. E una fotografia appesa sopra il suo nome scritto a caratteri d'oro, dove porta la divisa elegante, quella coi gradi e con le mostrine lucenti. Quella che gli hanno messo anche per tornare a casa dentro una bara di castagno avvolto da una bandiera e dai fiori bianchi. Quella degli incontri e delle cerimonie. Quella delle parole ipocrite e dei sentimenti sinceri. Quella del dolore, del lutto. Quella de La Morte, la quale è venuta a prenderselo nel territorio di Babilonia, dove la civiltà è nata e dove muore ogni giorno.

Carlo Mulas (Quartu S.E.)
2° premio 2006 (Sezione prosa «Angelo Dettori»)