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La cassa di Bachisio

La notte aveva fatto posto ai primi raggi di luce colorando l'aria a oriente e lasciando ancora addormentato il cielo dall'altra parte. In una pista circondata dal deserto, la pancia sicura di un aereo aveva partorito giovani già diventati soldati, operatori di pace in divisa da guerra. In fila l'uno dietro all'altro cominciarono a uscire, assordati dal frastuono provocato dal rollio dei motori, con il casco ben stretto al mento per proteggere la testa rasata e senza capelli, tutti quanti ben avvolti nei giubbotti antiproiettili. Il sole non ha ancora iniziato a mettere da parte, ad una ad una le ombre che la notte ha sparso ovunque, che Bachisio, come ogni mattina, ha già fatto colazione con del pane e qualche avanzo della sera prima, masticando e maledicendo quella vita che lo costringe a lavorare la terra per trarne quanto serve per vivere. Aperta la porta, si ferma un attimo e per controllare il tempo osserva il cielo. Un venticello si sta portando via le poche nuvole che poco avrebbero potuto per rovinare una giornata d'aprile, che promette d'essere bella, fresca e soleggiata. Bachisio, bestemmiando anche contro il tempo, chiude la porta, piano per non svegliare la moglie ancora addormentata. Si avvicina alla stalla dove c'è Giobbe, il vecchio cavallo mezzo sordo e gli arnesi che utilizza in campagna. Mette il sotto sella e la sella, passa la posoliera sotto la coda poi stringendo il sottopancia e guardando il cavallo dice: "Certo che se tu fossi stato un trattore avrei fatto meno fatica ed ogni mattina non dovrei camminare sul letame... Maledetto tutto ciò che esiste". Giobbe non mostra di aver capito e, se anche fosse, rimane zitto, tanto è ogni giorno la stessa storia, le stesse bestemmie, lo stesso malumore. Salito a cavallo, Bachisio lo sprona con un colpetto del tallone e come sempre lo lascia andare da solo, "Ormai conosce il sentiero meglio di me", pensa. Giobbe, senza fretta, quasi temendo la dura giornata, segue il sentiero che scende verso l'orto, un terreno poco lontano dal fiume a confine con un altro ortolano che si chiama Pietro. Appena arrivati, Bachisio, da lontano vede proprio lui, con una mano sul fianco e l'altra sollevata al cielo con il pugno chiuso come per minacciare l'aria. Senza neanche scendere da cavallo, Bachisio urla: "Pietro ! Pietro!...Cosa succede!? ". Pietro, sentita la voce e visto l'amico, con tono alterato e gli occhi rossi come braci di un fuoco acceso, risponde: "Cosa succede ?, Guarda qui!, Vieni, vieni a vedere". Bachisio veloce scende da cavallo e guarda nel terreno del vicino già piantato ad orto pochi giorni prima e vede il danno: tutto l'orto è rovistato e rivoltato da un gruppo di cinghiali che vi avevano scorrazzato tutta la notte. "Perdio che danno", dice Bachisio serio serio. Pietro, senza neanche rispondere e scuotendo la testa va a prendere la zappa, rimproverandosi a bassa voce: "Prima di piantare avrei dovuto chiudere bene il terreno... Accidenti a me". Intanto Bachisio, tolta la sella, inizia ad attaccare il cavallo all'aratro e guardandosi intorno si accorge di qualcosa che non va. Intorno, su tutto il terreno, ci sono le buche fatte dai cinghiali: il terreno di Pietro, la parte fatta ad orto l'anno prima, da questa e dall'altra parte del fiume, tutto è rivoltato e calpestato. Tutto salvo il pezzo che lui quest'anno aveva deciso di piantare ad orto. "Che diavolo", pensa, "Che sia un terreno non buono, che lo abbiano avvelenato?". Con questi pensieri in testa inizia ad arare incitando il cavallo con la voce. Legato all'aratro c'è quello che una volta era un pungolo fornito di frusta e che adesso ha solo una lama d'acciaio montata sulla punta per togliere di tanto in tanto la terra dal vomere. Non aveva fatto che un paio di solchi quando Pietro lo apostrofa da lontano dicendo: "Bachisio, io sto andando in paese a procurarmi un pò di piantine, ci vediamo domani". Bachisio annuisce per far capire che ha sentito e continua a seguire il cavallo senza neanche voltarsi. Appena dopo mezzogiorno, inizia ad essere stanco e anche se manca poco a finire, decide di fermarsi un attimo per riposare, mangiare un pezzo di pane e formaggio e per portare un secchio d'acqua a Giobbe. Portandosi la bottiglia alle labbra pensa: "Ma dimmi tu se questa è vita, oggi mi tocca arare, domani mattina devo spietrare, durante il pomeriggio dovrò preparare i solchi e dopodomani potrò piantare l'orto. Fosse finita così, invece,c'è da zappettare le patate, le fave, c'è da curare la vigna, il grano, gli ulivi... Senza contare il resto. Meno male che Gavina mi aiuta almeno con il bestiame e fa il formaggio e la ricotta, altrimenti non so come avreifatto... Maledetta campagna... Ma se divento ricco butto via la zappa il più lontano possibile". Ancora borbottando, si alza e si avvicina all'aratro, da un calcio alla bure per far cadere un po' di terra, da un'altra raschiata al vomere, incita Giobbe e riparte affondando la gran lama ricurva nella terra nera e umida, ancora fumante. Fatti pochi passi l'aratro s'impunta provocando un rumore di ferro contro ferro, Giobbe prova a tirare, anche lui convinto di aver trovato una pietra più grande delle altre. Tira, la dissotterra e si ferma. Subito Bachisio sposta di lato l'aratro per fare lo spazio per togliere la pietra ma braccia e mani si fermano a mezz'aria, si inginocchia e con il naso ad un palmo da quella cosa, esclama: "Sant'Antonio e questa cos'è?". Tirando l'oggetto e spostando la terra con le mani riesce a scoprire completamente ciò che ha trovato sotto terra. E' una cassa di legno, sembra fatta di ginepro, ormai dello stesso colore della terra per quanto dev'essere antica. Lunga due palmi, alta uno e mezzo, larga un palmo e quattro ditta. Sembra non abbia serratura o altra fessura per inserire una chiave o altro strumento. Rinforzata negli spigoli e per tutta la lunghezza con ferro ben lavorato da un fabbro esperto. Il legno non è tarlato, e per quanto sia antico è intatto e compatto come il giorno che qualche mastro d'ascia lo ha lavorato con l'ascia, serraco e pialla. Bachisio, che ormai è convinto di aver trovato un tesoro, si guarda intorno per vedere se c'è gente e se qualcuno ha visto qualcosa: nessuno. Allora velocemente trascina la cassa sotto un cespuglio di lentisco che si trova vicino al cancello di legno, verso il sentiero per tornare a casa. Tornato all'aratro, lo rimette in posizione e incita Giobbe per completare i pochi solchi che restano. Appena terminato, stacca il cavallo e tutto soddisfatto si sdraia vicino alla cassa aspettando l'imbrunire per portarla via di nascosto. Con il berretto calato sugli occhi, inizia a fantasticare, provando ad immaginare cosa e quanto ci può essere e cosa può fare con tutti quei soldi, gioielli o cos'altro ci sia. "Era ora che questa terra maledetta rendesse qualcosa", pensa, "Dopo tanto tempo mi ha ripagato, era ora!. Così borbottando, si assopisce, con il mento poggiato sulla mano aperta e il gomito piantato in terra per sostenere quella testa così piena di pensieri. Arrivata l'ora, Bachisio si sveglia, si alza e preparato il cavallo, mette la cassa nella bisaccia, la getta di traverso sulla sella e parte. Appena entra in casa, trascinando il carico, chiude e mette il passante alla porta. La moglie, ormai preoccupata per il ritardo e vedendolo così agitato esclama: "Ma cosa ti succede? Mi sembri inseguito da cento demoni!" Bachisio, senza neanche guardarla in faccia risponde: "Gavina, zitta e aiutami amettere questa cosa sul tavolo". La povera donna, ormai abituata alla poca grazia del marito, mette le mani nella bisaccia ed insieme tolgono la cassa. Gavina, vista la cosa esclama: "Dio con tutti i santi, cos'è, cosa hai portato in casa?". Bachisio che non l'ha neanche sentita va al camino per prendere l'attizzatoio e con quello in mano si avvicina al tavolo, pronto a smontare la cassa. Ma senza che nessuno la tocchi, essa si apre da sola; sembra vuota, ne esce solo una nebbia che lampeggiando e senza fare nessun rumore, prende forma umana, quella di una figura femminile. Gavina lancia un grido e senza pronunciare nient'altro, con le mani strette al petto, cade in terra svenuta. Bachisio, a bocca aperta per lo spavento, si lascia cadere di peso sulla sedia, facendo rotolare per terra l'attizzatoio che ancora aveva in mano. "E tu chi ...o cosa sei...?", riesce a dire. La figura, fatta di nebbia e aria a quel punto parla: "'Bachisio, io sono l'anima della Terra. Quella che tu maledici ogni giorno e che ogni giorno calpesti con rabbia. Eppure ti sto dando di che vivere e prima di te l'ho fatto con tuo padre, con tuo nonno e con migliaia di altre famiglie prima di loro. Tutti mi hanno trattato con amore e hanno preso con riconoscenza quanto gli ho dato. Anche le pietre, che hanno usato per costruire i muri che adesso sono la tua casa. Tuo padre ha benedetto ogni attimo che ha passato in questo luogo e io ho ricambiato ogni goccia di sudore che mi ha lasciato cadere in seno crescendo il suo frumento, le sue piante e ogni altra cosa di cui necessitava, anche di più. A te invece do poco, perché dalle bestemmie non cresce niente, anche il sudore che lasci cadere è rancido, senza la dolcezza dell'amore. Impara, impara ad amare questa terra, perché ha un'anima, la stessa che ha abbracciato tuo padre e tua madre quando li hai sotterrati. Domani mattina, prendi questa cassa e sotterrala in un posto dove sei sicuro non ripasserai mai più, per tutta la vita". Dette queste parole, la figura luminosa riprende la forma di nebbia indistinta e in un attimo rientra nella cassa, che si richiude da sola con il rumore del legno indurito dal tempo. Bachisio, mezzo intontito, come chi ha preso una bastonata sulla nuca, passandosi le mani tra i capelli mormora: "Mio Dio, mio Dio". Poi, dandosi una scrollata, prende in fretta la cassa, la rimette nella bisaccia e aperta la porta la mette fuori quindi, prendendosi cura della moglie, l'aiuta ad alzarsi e mettersi seduta. Fatto ciò esce, prende la bisaccia, va alla stalla e sella Giobbe che con la pazienza di chi porta il nome, non si ribella neanche quando sente il morso tra i denti e nella paglia che stava ancora masticando. Caricata la bisaccia e una zappa, Bachisio sale a cavallo e parte. Dopo ore e ore di veglia, passate in sella, lungo i sentieri schiariti dalla luna, in luoghi poco conosciuti e ancor meno trafficati, si ritrova in una cussorgia abbandonata. Sceso da cavallo e messo a terra il carico, anche se ancora notte inizia a zappare per fare la buca. L'alba lo trova sotterrando la cassa e ricoprendola di terra con le mani. Finito il lavoro, Bachisio si siede per terra, con in mente le parole della Terra, che come frustate gli tormentano tutto il corpo, solo allora finalmente piange. Le lacrime scorrono a bagnare quel terreno che per tanto tempo ha maledetto. Da sotto terra, una luce tenue che si perde in quella del mattino, fa sapere che la Terra ha perdonato.

Franco Piga (Romana)
3° premio 2006 (Sezione prosa «Angelo Dettori»)