Si può affermare che nel contesto della cultura popolare sarda Ozieri rappresenti un caso a sé, posto che diversi sono gli elementi che lo differenziano dalla maggior parte dei centri dell'isola. Trattare in modo appena esauriente degli aspetti che caratterizzano la società e l'economia tradizionali ozieresi richiederebbe spazi e tempi notevolmente più ampi di quelli a disposizione, per cui necessariamente si dovrà limitare l'analisi agli elementi più notevoli e rinviare ad altra sede un più ampio studio sull'argomento.
Il pane
Per Ozieri è certo l'uso quotidiano di pane di grano. Al contrario di molti altri centri del Monte Acuto in cui si confezionava soprattutto pane d'orzo, per Ozieri appare generalizzato il consumo di pane di grano.
Dalla ricerca è emerso, per altro, che pane bianco di grano esclusivamente veniva utilizzato dalle famiglie benestanti mentre in quelle dei giualdzos si consumava comunemente anche il pane d'orzo. La coltivazione dell'orzo d'altronde era molto diffusa e tutti i contadini ne seminavano sempre una certa quantità. In parte l'orzo veniva utilizzato per nutrire il maiale. È presumibile però che nell'800 il pane d'orzo fosse molto diffuso; non si spiegherebbe altrimenti la grande estensione seminata a orzo corrispondente alla metà di quella a grano (4000 starelli di grano, 2000 starelli di orzo: Angius, 1845, p. 806).
A Ozieri la panificazione domestica è stata praticata comunque fino al 1965 circa e quindi sono ancora vivi nella memoria di tutti i processi di trasformazione cui veniva sottoposto il grano, la lavorazione dell'impasto, la manipolazione della pasta, la cottura. E' questo un sapere generalizzato, non esclusivo di alcune donne, ma comune a moltissime in quanto fino ad un recente passato ogni donna per essere considerata una buona padrona di casa (femina 'e domo) doveva conoscere l'arte della panificazione fin dall'infanzia. Fra le donne però esistevano competenze diverse dovute in primo luogo a differenti condizioni personali di tipo socio-economico. Mentre tutte potevano collaborare alla manipolazione della pasta, solo alcune si occupavano delle altre fasi come per esempio il trasporto del grano al mulino, la setacciatura della farina o la cottura del pane. Nelle case benestanti per esempio, la padrona di casa sovrintendeva soltanto, mentre tutti le fasi erano di competenza delle domestiche o di panificatrici a pagamento (suighidòras e coghidoras). Molto frequente era comunque lo scambio di prestazioni fra vicine di casa e parenti. Il numero delle donne impegnate nella panificazione variava ovviamente in rapporto alla quantità di farina da impastare.Accanto alla panificazione domestica esistevano però anche dei panifici la cui produzione era destinata ai non ozieresi.
Anche le famiglie nobili e dei prizipales consumavano il pane fatto in casa (pane 'e domo) diverso dal pane commerciale denominato volgarmente pan'ilgioco e pan' isthiradu. Per chi si occupava di agricoltura e di pastorizia comprare il pane era considerata cosa vergognosa: "era roba da impiegati".
Costituire la provvista del grano necessario per il consumo familiare era un'aspirazione non soltanto di quelli che possedevano terre, ma di tutti coloro che avevano a che fare con la campagna (tottu ettaiana trigu) quando ciò non era possibile, si aveva lo scambio dei prodotti (ad esempio fra artigiani e contadini, oppure fra pastori e contadini). Il grano veniva conservato a seconda della quantità in casse di legno (sos folzeris) entro grossi contenitori circolari di canne intrecciate (sos orrios) oppure in spazi ottenuti chiudendo per esempio parte di una camera con pareti di legno (sos granales).
La preparazione del pane era come detto di competenza femminile, ma anche la presenza maschile non era infrequente. L'uomo si occupava della produzione agricola, della costruzione degli attrezzi grandi e piccoli di legno e di ferro, come anche della provvista della legna per il forno. La ripartizione dei compiti nell'ambito delle diverse classi sociali è per altro molto complessa e comunque tale da richiedere un maggiore approfondimento che non è possibile in questa sede.
Fin dai primi anni del '900 (l'energia elettrica venne introdotta ad Ozieri nel 1907) erano in funzione i mulini elettrici che avevano soppiantato quelli a vapore che a loro volta avevano sostituito quelli ad acqua a ruota verticale situati lungo il corso dei fiumi. Per la seconda metà del '700 è documentata la presenza di tali mulini idraulici azionati dall'acqua che scendeva dalla Funtana 'e subra (attuale Fontana Grixoni). Si legge infatti nella Relazione di Vincenzo Mameli de Olmedilla sugli Stati di Oliva del 1769 che "L'acqua della sopraddetta fonte, condotta a tratti (a trechos) da alcune condutture (acqueductos) mal fatte, fa girare alcuni mulini privati (molinos de particulares), i quali al lato del suo corso si trovano sparsi sia fuori che dentro il paese" (Bussa, 1985, p. 196).
Per tempi più recenti fra i mulini elettrici installati ad Ozieri si ricordano il Mulinu 'e Gallèu, il Mulinu 'e Ghisaura, il Mulinu 'e Ciccello e il Mulinu 'e Canu. Durante periodi particolari come ad esempio durante l'incendio della centrale elettrica (1936) o durante la seconda guerra mondiale furono riattivate le mole asinarie, in modo particolare dai prinzipales e in ambiente rurale.
Per l'impasto (cumassare) si usavano farine diverse a seconda del pane che si doveva ottenere. Varie erano soprattutto le tecniche di lavorazione, il numero delle addette, la consistenza dell'impasto, gli strumenti, i tempi e i modi di preparazione, la foggiatura e la cottura del pane; peraltro tutte le tecniche accertate ad Ozieri sono riconducibili a quelle praticate nel resto dell'isola.
Su Pane fine
Il tipo di pane più pregiato e più diffuso era quello a spianata (su pane fine), che richiedeva tempi più lunghi di lavorazione rispetto agli altri. L'impasto si lavorava a lungo, con il palmo della mano, finché non diventava bianchissimo e si formavano le bolle d'aria nella pasta (sas bullancas). Si procedeva a questo punto alla foggiatura del pane utilizzando il mattarello (su cannone). Partendo da una porzione di pasta di forma sferica mediante il mattarello si procedeva alla spianatura (incannonare) fino ad ottenere un disco di 30-40 centimetri di diametro e dello spessore di qualche millimetro. Per non far gonfiare il pane durante la cottura si imprimeva con i polpastrelli di entrambe le mani una leggera pressione su tutta la superficie. Non tutte le donne erano capaci di incannonare, per cui si aveva una divisione dei ruoli; alcune si occupavano della preparazione delle sfere di pasta (dovevano essere di grandezza uniforme), altre della spianatura, altre ancora della sistemazione del pane nei canestri per la lievitazione.
I grossi canestri (sos canisthreddhos) di palma nana, ricoperto con tovaglie di tela bianca, potevano contenere, disposti su più strati (alternando sempre con le tovaglie) da 40 a 50 spianate. Il pane veniva lasciato lievitare, ben protetto con coperte di lana; veniva quindi portato al forno per la cottura.
Su Chivaldzu
Dal cruschello (detto appunto chivaldzu) si otteneva un tipo di pane simile a su pane fine, sia per lavorazione che foggia. Al contrario del pane fine, però, sulla superficie non veniva fatta alcuna pressione con il polpastrelli per consentire al pane di gonfiarsi uniformemente durante la cottura.
Tolto dal forno, l'addetta alla cottura (sa coghidora) consegnava il pane ad un'altra donna che seduta vicina, con uno straccio lo puliva da eventuali residui di farina e di cenere e poi con un coltello affilato lo tagliava lungo la circonferenza separandone i due strati (sos pidzos). La particolarità del chivaldzu utieresu consisteva nello diverso spessore dei due strati, dei quali il sottile era quello superiore.
Ultimata la cottura di tutto il pane, quando la temperatura del forno si era abbassata, si infornavano nuovamente i due strati, sovrapposti, entrambi con la parte interna rivolta in alto, per fare tostare leggermente.
Il chivaldzu era pane di lunga conservazione che veniva preparato soprattutto nei mesi caldi con cadenza di solito quindicinale. Veniva consumato con le minestre, oppure, ammorbidito nell'acqua, con il companatico; costituiva la merenda dei bambini cosparso di ricotta grattugiata oppure di zucchero o miele.
Sas còzzulas ammoddhigàdas
Era un tipo di pane che si otteneva dalla farina integrale, esclusa la crusca. La pasta diventava morbida con la continua aggiunta di acqua tiepida durante la lavorazione. Si otteneva un impasto morbido che veniva fatto lievitare dentro un grosso recipiente di terracotta (sa tudinèra). Prima della cottura la pasta veniva suddivisa in piccole porzioni sferiche successivamente foggiate sulla pala da forno ad assumere forma schiacciata ovale. Questo tipo di pane veniva preparato in tutte le stagioni; d'inverno lo si consumava riscaldato sulla graticola (assùdu).
Sos tureddhos
Erano dei pani di farina di grano e patate. Si preparavano d'estate, subito dopo il raccolto del grano (s'incundza), e delle patate.
Si è a conoscenza che nel passato questo pane veniva preparato per la festa della Madonna degli Angeli (Nosthra Segnòra de sa Puzzuncula), che veniva celebrata il 2 agosto. A questo proposito viene ricordato un detto popolare. Quando ai narbonai (navonàjos), che seminavano piccole estensioni di terreno (in genere solo un ettaro) si chiedeva come era andato il raccolto (s' annada) abitualmente rispondevano "Gia bi la faghimus a sos maccarrones de sa Puzuncula", ad indicare che il raccolto era stato modesto ma comunque in grado di coprire il fabbisogno familiare per un certo periodo. Al contrario quando la stessa domanda veniva rivolta al massaiu, che coltivava grosse estensioni di terreno e quindi faceva un raccolto più abbondante la risposta era: "Gia bi l'amus pro sos maccarrones de mes'austhu", ossia che la quantità di grano immagazzinata sarebbe stata sufficiente per periodi abbastanza lunghi.
Sas coccas de pumu 'e terra
Era un pane speciale che si preparava per i Santi. Si faceva un impasto morbido in un recipiente di terracotta di forma tronco conica rovesciata (sa tudinera) con della farina di grano, patate già bollite e schiacciate, lievito, sale e acqua tiepida. La proporzione era di 2 a 1 (2 kg di farina, 1 di patate). Si insaporiva la pasta con dei semi di anice (anisi) schiacciati oppure con semi di finocchietti selvatici (semene 'e fenujeddhu).
Sas coccas venivano foggiate al momento di introdurle nel forno, a forma di schiacciata ovale. Ciascuna cocca veniva decorata con incisioni parallele fatte nella parte centrale con la rotellina della pasta oppure con delle piccole incisioni tondeggianti ottenute comprimendo la pasta con i polpastrelli.
Questo pane era particolarmente gradito dai bambini poiché si conservava morbido per 8-10 giorni; veniva donato, insieme ai papassini, alle famiglie in lutto.
Sa cozzulas de eldha
Anche questo era un pane occasionale, non comune; si faceva solo qualche tempo dopo l'uccisione del maiale. Attualmente viene prodotto da due panifici locali durante tutto l'inverno.
All'impasto, del tipo morbido come per il pane normale, vengono aggiunti i ciccioli (sa eldha), residui della preparazione dello strutto, zucchero e in qualche caso anche uva passa. Sas cozzulas de eldha vengono foggiate come una schiacciata di forma ovale sulla pala prima dell'infornatura. Si mangiano calde dopo la cottura, oppure riscaldate sulla graticola.
Sa cozzulas de muscia
Anche questo era un pane occasionale che veniva preparato solo in primavera, quando si scioglieva il burro per fare s'odzu casu. La muscia, infatti era la parte che si depositava nel fondo del recipiente quando si faceva sciogliere il burro; veniva utilizzata per condire questo tipo di pane, che aveva la stessa forma delle cozzulas de eldha.
S 'ordzatu
Con la farina di orzo si confezionava il pane denominato ordzatu. Il processo di lavorazione era del tutto simile a quello ottenuto con il cruschello di grano (chivaldzu). A volte si mischiava farina di grano con farina d'orzo, ma non era raro il caso che venisse usata esclusivamente farina d'orzo.
Sas cozzulas de triguindia
Non è sconosciuto, anche se non risulta molto diffuso, l'uso della farina di granturco, utilizzata, oltre che per la preparazione della polenta (sa pulenta), anche per confezionare focacce conosciute come sas cozzulas de triguindia.
La cottura del pane (coghere su pane)
Dalla ricerca emerge che Ozieri, per la prima metà del secolo, pochissime erano le case private dotate di forno a legna. Fin da quando Ozieri e città (1836), tendenza degli amministratori fu quella di farle perdere l'aspetto di villaggio e trasformarla in "...un centro urbanisticamente moderno, tale da meritarsi anche l'appellativo di "Perla del Logudoro", a cui i villaggi limitrofi potessero attingere per il proprio miglioramento architettonico". I primi anni quaranta segnano l'inizio di una graduale ma costante evoluzione nella struttura dell'abitato: vengono abbattute molte delle vecchie casette ad un piano e al loro posto sorgono nuovi edifici a più piani. Sono queste soprattutto le abitazioni delle famiglie ricche e benestanti. Data la particolare conformazione dell'abitato, tutto arroccato su colline, questi palazzotti non si poterono costruire su notevoli estensioni, per cui si optò per una costruzione a spinta fondamentale verso l'alto.
Le costruzioni comunque, si succedettero in maniera notevolmente disordinata, disponendosi senza un piano ben preciso così che ben presto si arrivò ad un vero e proprio collasso, con abitazioni che non ricevevano né il sole né l'aria, e si crearono spesso delle condizioni igieniche precarie" (A. Pinna, Nascita..., in Ozieri, 1989, pp. 38-39).
In una tale situazione urbanistica non era possibile che tutte le famiglie potessero disporre di un forno proprio. Poiché però, si continuava a fare il pane in casa, sorsero moltissimi forni "pubblici" gestiti da donne che esercitavano il mestiere di coghidoras. In ciascuno dei rioni (Montju, Donnigadza, Cudzolu, Cadeddhu, Costhe, Biddhanoa, Corraldzu e Iddhazza) esistevano diversi forni per la cottura del pane. Sas coghidoras erano donne povere che avevano impiantato nelle loro misere abitazioni ad un piano dei forni che utilizzavano per la cottura del pane di che ne faceva richiesta ed esercitavano questo mestiere durissimo per tutta la giornata e in tutte le stagioni. Venivano retribuite normalmente con del pane in proporzione alla quantità consegnata per la cottura e negli ultimi tempi anche in denaro. Spettava a lei stabilire anche i turni della panificazione fra le diverse clienti in modo che la cottura venisse distribuita nell'arco della giornata e il pane fosse lievitato al punto giusto. Era necessario evitare di cuocere il pane non ancora lievitato (pùrile) perché in questo caso comparivano sulla superficie delle bolle bruciate (isciottas brugiadas), oppure troppo lievitato, perché il pane avrebbe conservato eccessivo sapore di lievito (sabore de madrighe).
Fare il pane "bello" era aspirazione di ogni donna, ma quando si sbagliava ci si giustificava col fatto che, come tutti i lavori manuali, anche il pane poteva riuscire più o meno bene: "Sun fainas de manos. Cottas e bogadas ogni chida si 'ndhe faghene" (trad. lett.: Sono lavori manuali. Pane e lavaggi se ne fanno tutte le settimane).
Ottima legna per il forno (solo rami) era considerata quella di olivastro (odzasthru) perché utilizzabile sia fresca che secca, mentre quella di lentisco (chessa), anch'essa molto usata, doveva essere secca. Alle coghidoras le fascine di legna venivano fornite dai linnajolos, uomini che tagliavano la legna per proprio conto nei numerosissimi terreni boschivi privati del territorio ozierese. Avendo Ozieri pochissimi territori comunali, i linnajolos facevano il taglio della legna nei terreni dei privati (dopo naturalmente aver preso accordi con il proprietario) e poi trasportavano i fasci in città con i carri. Alcuni molto poveri, però, tutti i giorni, andavano alla ricerca della legna lungo i viottoli di campagna e rientravano alla sera con un fascio sul capo che vendevano alla coghidora.
Il pane appena riportato a casa dopo la cottura veniva messo a raffreddare su panni di lana poggiati sui letti. Nel frattempo si disinfettava e profumava con s'affumentu la cassapanca (sa cascia) in cui veniva riposto per la conservazione.
All'interno della cassa veniva fatto bruciare dello zucchero sistemato in un cucchiaio insieme ad una brace; in questo modo lo zucchero bruciando all'interno della cassapanca chiusa eliminava i cattivi odori e purificava l'aria.
Le ultime coghidoras hanno smesso di lavorare, con la scomparsa definitiva della panificazione domestica, da circa di un trentennio. I forni familiari, dove esistenti, furono demoliti per trasformare i locali in cucine più pulite o per ottenere spazi abitabili. Insieme ai forni vennero distrutti sos foghiles, i focolari che stavano al centro delle stanze e che servivano oltre che come fonte di riscaldamento anche per cuocere i cibi e anche le cucine in muratura con i fornelli di ferro alimentati a carbone. La coltivazione del grano in Sardegna, è diventata da tempo antieconomica e mancando il grano di produzione locale si è smesso di panificare a livello familiare. Ma i panettieri ozieresi hanno abbinato a quella del pane industriale la confezione del pane tradizionale. Logicamente questo pane tradizional-industriale ha sostituito con gli anni quello fatto a casa, mentre la lavorazione da manuale è diventata meccanica. Un gran numero di panificatori eccedente rispetto al mercato ozierese si è spostato nei paesi circostanti (Nughedu, Pattada, Ittireddu, Ardara etc.). La cosiddetta "spianata tipo Ozieri", che in realtà è un tipo di pane usato in moltissimi centri del Logudoro, si fa ormai in tutto il nord Sardegna e si vende sempre più insieme agli altri tipi di pane rispetto ai quali ha il pregio di mantenersi gradevole da mangiare anche a diversi giorni dalla cottura.
Strumenti per la cottura del pane |
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