Il Fregio dell’Apocalisse nel Sant’ Antioco di Bisarcio
di Gian Gabriele Cau
Il saggio è stato pubblicato su «Annali di Storia e Archeologia Sulcitana», 2014 (IV), pp. 139-150.
Lo studio dei tratti iconografici superstiti e maggiormente dell’iconologia della fascinosa ed esuberante decorazione scultorea del prospetto di facciata del S. Antioco di Bisarcio, nella Piana di Ozieri, è un processo lento, neppure compiuto, avviato nella storiografia della seconda metà del XIX secolo. Il canonico Giovanni Spano è il solo a conoscere un’opera ormai compromessa dai guasti del tempo, ma non ancora violata dai restauri del Novecento. Ne rileva il disegno e si limita a osservare come “l’arco di mezzo era composto di tre cordoni, i primi due scolpiti con diversi arabeschi, il terzo con figure animali, leoni, aquile, ecc.”; mentre “quello a sinistra ha scolpiti diversi santi in varie posizioni, uno per es. è seduto e porta un libro leggendo sulle ginocchia, un altr’angelo ha un turibolo, e così di altri. Quello poi a destra è formato ad arabeschi, ed a triangoli intrecciati”[1]. Dionigi Scano, che ai rilievi non dedica alcuno spazio, pubblica una fotografia[2] che testimonia un intervento di restauro già compiuto nel 1907, con la perdita dei rilievi annotati dallo Spano.
Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco (ante 1090 – 1170-1190)
Nel 1953, nel suo per molti tratti ancora attuale Architettura in Sardegna, Raffaello Delogu per primo crede di poter distinguere nel partito decorativo di facciata non pochi elementi dai “caratteri puramente francesi dagli altri di evidente ispirazione pisana”[3], esito di una collaborazione franco-toscana portata avanti per un ventennio, tra il 1170 e il 1190, al tempo della fabbrica della galilea[4]. Tra le derivazioni d’oltralpe porta ad esempio quelle che lui interpreta come “figure di angeli o forse anche di santi scolpite nella ghiera della prima arcata a sinistra con una disposizione a raggiera che è già gotica […]; oppure la bellissima scena agreste scolpita nella ghiera dell’arco centrale”. Piero Sanpaolesi riconosce nelle sculture del piano terreno dell’atrio, secondo la sua proposta cronologica riferibili al sesto decennio del XII secolo, talune consonanze con quelle del frammentario capitello del pilastro absidale interno, realizzate da una maestranza pisana formatasi presso la fabbrica del duomo di Pisa. Da questa deriverebbero quelli che lo studioso intende come “piccoli busti umani” della ghiera esterna dell’arcata sinistra del portico e la teoria di animali della cornice esterna dell’arcata centrale[5]. La cronologia e l’intuizione del Delogu sono condivisi da Renata Serra, che a Bisarcio vede l’attuarsi di un originale sincretismo tra modi pisani e borgognoni[6], e da Roberto Coroneo, per il quale il portico a due piani è assimilabile a quelli francesi, ma la decorazione è di derivazione pisana[7].
Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco, i decori dei tre fornici
In una sorta di work in progress, che ha il suo esordio con un saggio apparso nel 1999 su “Sacer” ed è periodicamente aggiornato in un sito web[8], Fernanda Poli dedica ampio spazio ai rilievi scultorei della facciata e a taluni dell’area presbiteriale poi riconosciuti come Fregio del trionfo del Cristo sul Basilisco[9]. La studiosa ritiene che i decori del portico di Bisarcio, a suo dire “di sicuro riutilizzo, appartengano ad un tempo che deve fissarsi alla seconda metà del XII secolo”,[10] più probabilmente al decennio 1180-90. Il dato cronologico non sarebbe, tuttavia, estendibile all’“intera struttura architettonica, più tarda almeno di qualche decennio, le cui arcate furono” – ipotesi non dimostrata – “certamente dimensionate alla forma del materiale plastico da riutilizzare”[11]. Riconosce nei decori dell’archivolto esterno dell’arcata centrale delle corrispondenze con l’analogo Fregio delle cacce della cornice marcapiano del duomo di Pisa (secondo quanto già intuito da Roberto Coroneo[12]) e nella ghiera esterna dell’arcata sinistra non dei busti umani (come scrive il Sanpaolesi), ma talune figure intere sedute su un bancale, che percorre senza interruzioni tutto il fregio[13]. In alcune, per l’attributo di un rotolo dispiegato, retto da uno dei personaggi, crede di individuare forse delle immagini di profeti, in altre degli angeli, tra i quali uno turiferario, e altri elementi (una foglia e un albero). Tra queste dell’arcata sinistra, non coglie alcuna relazione iconologica né altro nesso se non che tutte sono riferibili a maestri toscani, allievi o comunque debitori dei grandi Guglielmo e Rinaldo, senza esclusione di contributi di lapicidi francesi[14]. In questa sede, si intende invece proporre una nuova lettura dello stesso fregio che, a causa del grave stato di degrado di talune figure, ha posto maggiori problemi di interpretazione. Alla luce di tratti iconografici sin qui inediti, si cercherà di dimostrare come taluni spunti che regolano i rapporti tra i differenti soggetti siano indubbiamente riconducibili a una stessa unità narrativa, individuata in alcuni passi dell’Apocalisse di San Giovanni.
L’Agnello mistico, il Tetramorfo e i Ventiquattro Vegliardi, affresco, (ambito laziale non anteriore al primo quarto del Duecento), Semestene, chiesa di San Nicolò di Trullas
La trattazione di soggetti apocalittici non abbonda di riscontri nella scultura medioevale sarda. Al momento, si ha notizia di una formella barbarica con La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, nella facciata della basilica minore di San Simplicio a Olbia[15], di una non meglio definita Scena apocalittica, nella quale si è creduto di riconoscere uno dei Ventiquattro Vegliardi, in un capitello della chiesa di San Pantaleo di Dolianova[16] e di un discusso frammento di bassorilievo erratico con un Cristo benedicente in trono fra angeli, per ipotesi tra un perduto “corteggio angelico, di chiaro riferimento all’immaginario apocalittico, relativo alla rappresentazione del Giudizio Universale”[17], oggi murato come paliotto nella cappella “pisana” della cattedrale di Cagliari. A questi può associarsi un inedito Drago che attenta al bambino figurato sul campanile a vela del XIV secolo della chiesa romanica di San Giovanni Battista di Orotelli (ante 1139[18]. Nella pittura merita di essere ricordato il notevole ciclo di affreschi del San Nicolò di Trullas (ambito laziale non anteriore al primo quarto del Duecento), dove, nella crociera che copre la campata prossima all’abside, compaiono alcune delle figure della visione di San Giovanni di Bisarcio: l’Agnello mistico, il Tetramorfo e i Ventiquattro Vegliardi con l’attributo delle coppe e la corona in capo[19].
Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco, archivolto sinistro, Fregio dell’Apocalisse
- Vegliardo con calice
- Lucerna accesa
- Vegliardo con il Leone del Tetramorfo
- Vegliardo
- Concio aniconico
- Vegliardo con il Vitello del Tetramorfo
- Foglia dell’Albero della Vita
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- Vegliardo (con Angelo del Tetramorfo perduto?)
- Vegliardo
- Arcangelo Michele
- Angelo con flagello
- Agnus Dei
- Fiume di acqua limpida
- Angelo turiferario
- Albero della Viita
- Figura perduta
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- Vegliardo?
- Vegliardo
- Vegliardo con l’Aquila del Tetramorfo
- Vegliardo
- L’Onnipotente
- La Grande Prostituta
- Formella con ruota
- Barisone II de Lacon-(Gunale) e Costantino II de Lacon-(Gunale)
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In occasione del cedimento della parte sinistra del paramento della galilea della chiesa di Bisarcio, ipotizzabile in epoca spagnola anche per la presenza di un contrafforte sul lato nord, proprio delle architetture di quel tempo, la bifora fu accecata con dispersione della colonna spartiluce e delle pertinenze. Sopravvive, nell’archivolto esterno, un certo numero di figure disposte secondo un ordine radiale oggi su dodici conci, nella misura da uno a tre per ogni elemento. Non si tratta di busti umani, come scrive il Sanpaolesi, ma “di figure intere sedute su un bancale che percorre senza interruzioni tutto il fregio”[20], intercalati da pochi elementi che richiamano e confermano il racconto apocalittico. Nella geometria dell’archivolto è facile leggere un rimando alla volta celeste nella quale trova spazio il trono, sul quale “uno stava seduto”[21] (fig. 21). Costui, di cui si tace il nome ma che la teologia individua nell’Onnipotente e di cui si dirà meglio nel corso della trattazione, non occupa la centralità architettonica, ma si colloca all’estremo destro dell’archivolto, come termine di un cammino quasi processionale che in Lui ha la sua meta e il suo destino, e di cui lo stesso Agnus Dei (fig. 12) rappresenta un tramite[22]. Potrebbe essere questa la ragione di una composizione inusuale, appena compromessa da una limitata alterazione strutturale, a seguito del crollo del paramento della galilea.
Si crede che in origine l’arco fosse allineato, secondo la norma architettonica, sul piano di imposta così come nei due fornici contigui. Nel corso del ripristino dei conci rovinati a terra, si sarebbe determinato un leggero slittamento di circa diciotto gradi in senso orario, per il compattamento di una parte del fregio a seguito della perdita almeno del peduccio di imposta sinistro e di un concio intermedio, solo in parte risarciti da un cantone del paramento di rinfianco. Ciò avrebbe comportato uno sfasamento dell’asse primitivo, che si assume coincidesse con quello dell’Agnus Dei (fig. 12), figurato in antico nel concio di chiave dell’archivolto (oggi nel concio di controchiave destro), secondo un modello riscontrabile, tra gli altri, nell’Agnus Dei con Vegliardi della ghiera esterna dell’archivolto dell’ingresso orientale del battistero del duomo di Pisa (post 1153). L’ipotesi della sostanziale sopravvivenza dell’impianto architettonico originario è sostenuta dalla convergenza degli sguardi della massima parte dei personaggi verso l’apice dell’arco (quelli a sinistra guardano a destra e viceversa), dove si assume insistesse l’Agnello.
Vegliardo con calice, Lucerna accesa, Vegliardo con il Leone del Tetramorfo, Vegliardo
Nel primo concio in senso orario, sono due Vegliardi (figg. 1, 3), i primi di una rappresentanza dei Ventiquattro Vegliardi avvolti in candide vesti e seduti su altrettanti seggi attorno al trono[23]. “Le loro teste” – scrive Fernanda Poli, che crede di identificarli forse con dei Profeti – “(i visi sono pressoché perduti: si è salvato solo quello del terzo personaggio di sinistra) superano l’altezza del fregio e, insieme alle spalle, si staccano nettamente dal piano di fondo. Indossano tuniche prive di panneggio (a quanto è dato vedere) con maniche corte, dai risvolti molto evidenti (così come il girocollo) che, dove conservati, lasciano vedere avambracci estremamente robusti; le ginocchia sono aperte e i grossi piedi divaricati; i capelli sembrano in qualche caso essere lunghi fino alle spalle”[24].
Archivolto del portale della chiesa di Sainte-Marie ad Oloron (xii sec.), nei Bassi Pirenei
La postura ricalca quella dei Vegliardi della ghiera esterna del portale della chiesa di Sainte-Marie a Oloron (XII sec.) nei Bassi Pirenei, nei quali la Poli ha individuato, a ragione, l’esempio più pregnante, sotto il profilo compositivo più che stilistico, di questo fregio[25]. Anche in quella figurazione, come qui a Bisarcio, i Ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse siedono su uno scranno continuo, con uguali enormi piedi con le calcagna contrapposte. Al colmo dell’arco, ancora l’Agnello mistico (nell’esempio di Oloron entro un clipeo) si offre alla loro adorazione.
Il primo Vegliardo è riconoscibile per l’attributo di un calice impugnato con la destra (di cui resta il fusto e il vago profilo della coppa a campana), colmo di profumi che sono le preghiere dei santi (fig. 1)[26]. Il secondo sostiene sul grembo con la destra un Leone, di cui avanzano l’addome e le zampe anteriori (fig. 3). È il primo dei Quattro esseri viventi (il Tetramorfo), secondo la visione di Giovanni seduti “attorno al trono”[27]. Tra il primo e il secondo vegliardo, sul piano del trono-bancale, è una lucerna con una lingua di fuoco, allusiva alle “sette lampade accese davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio”[28] (fig. 2).
Vegliardo con il Vitello del Tetramorfo, Foglia dell’Albero della Vita
Nel secondo concio, un terzo Vegliardo mutilo dell’intero braccio sinistro, ha il destro levato, monco della mano (fig. 4). Il terzo concio, di ripristino, è aniconico (fig. 5). Nel quarto, un Vegliardo tronco di quasi tutti gli arti, con la destra, trattiene sul grembo un piccolo Vitello, il secondo soggetto del Tetramorfo[29] (fig. 5). Il bovino, molto deteriorato, ha le zampe anteriori flesse e il capo rivolto verso sinistra, in un probabile gesto di intesa con il leone[30]. Nel quinto concio, è una Foglia che richiama le Foglie dell’Albero della Vita rappresentato più avanti, “che servono a guarire le nazioni”[31] (fig. 7).
Vegliardo (con Angelo del Tetramorfo perduto?), Vegliardo, Arcangelo Michele
Nel sesto, è una copia devastata di figure quasi indecifrabili, ridotte ad ammassi informi (figg. 8-9), forse identificabili in due Vegliardi per la sopravvivenza nella prima di un breve tratto di una capigliatura conforme a quella dei Vegliardi del primo concio. La stessa figura è tra le più corpulente del fregio, seconda solo all’Angelo turiferario di cui sui dirà più avanti. Per questa ragione è la figura più probabile, tra quelle superstiti, alla quale possa associarsi un credibile piccolo Angelo, il terzo degli esseri viventi citato nell’Apocalisse[32], sicura parte di questo fregio.
Nel settimo, nell’ottavo e nel nono concio, è un gruppo di tre angeli (figg. 10,11,14). Il primo, il solo che guarda lo spettatore, quindi iconograficamente distinto dagli altri (figg. 11-14) che fanno gruppo con l’Agnus Dei (fig. 12), si dichiara, per l’attributo molto deteriorato di un piatto di stadera presso l’articolazione dell’ala sinistra, l’Arcangelo Michele che nel racconto apocalittico è protagonista con i suoi angeli di un combattimento contro il drago[33] (fig. 10).
Angelo con il flagello
Il secondo angelo impugna con la destra un flagello, per il quale si rivela rappresentante dei “sette angeli che avevano sette flagelli”[34] (fig. 11). Il flagello in questo caso è inteso come una disciplina, una frusta con corde uncinate, uno strumento di punizione che racchiude i sette castighi (flagelli) di Dio. Sulla tunica veste una sorta di gonnellino con pterigi, che evoca l’iconografia dell’Arcangelo Michele capo delle milizie celesti. L’ala sinistra è scolpita sul concio seguente e pare celare gli arti posteriori di un Agnus Dei in posizione errante verso destra, quindi verso l’Onnipotente.
Agnus Dei e Fiume di acqua limpida che scaturisce dal trono
Agnus Dei, Fiume di acqua limpida, Angelo turiferario e frammento dell’Albero della Vita
Particolare dell’Angelo con incensiere e verga sardesca
L’Agnello è molto consunto, ancora distinguibili le zampe, il capo con l’orecchio destro e la parte apicale dello stipes della croce che portava sul dorso. Siede anche Lui sul trono da cui, come una fonte, “scaturisce un fiume d’acqua limpida come cristallo”[35] (fig. 13). A destra Gli rende lode un Angelo turiferario con un incensiere d’oro che di lì a poco avrebbe scagliato sulla terra[36]. Impugna con la sinistra una verga sardesca, l’arma in uso agli eserciti giudicali sardi[37], che richiama l’immagine dell’Angelo sterminatore “con la spada sguainata in mano, tesa verso Gerusalemme”[38], descritto nel Primo Libro delle Cronache. Oltre, nello stesso concio, in perfetta simmetria con la cennata Foglia (fig. 7), è quanto resta di uno dei due Alberi della Vita che, come in questa figurazione (qui la Foglia evoca l’Albero), stanno da una parte e dall’altra del fiume e “dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese”[39] (fig. 15). Nel decimo concio erano due figure, la prima completamente perduta (fig. 16), la seconda, ridotta a un ammasso informe, si indovina possa essere un Vegliardo (fig. 17).
Vegliardo, Vegliardo con l’Aquila del Tetramorfo, Vegliardo
Nell’undicesimo concio sono altre tre figure di Vegliardi, di questi quello mediano (fig. 19), decollato come quello che lo precede (fig. 18), trattiene sul grembo con la sinistra l’ultimo dei Quattro Esseri viventi, l’Aquila, volta verso l’Agnello. Il Vegliardo che lo segue, anche questo privo di attributo (fig. 20), guarda verso Colui che, nell’ultimo concio, sta assiso sul trono, e svolge sulle ginocchia “un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”[40] (fig. 21). Un manto copre la tunica e il capo dell’Onnipotente come un’aura, perché, insegna il Salmo 103, v. 2, Egli è “avvolto di luce come di un manto”[41]. Monco degli avambracci, ha il volto deturpato da un’ampia lacuna. Alla destra, nello stesso concio, si colloca (anche questa volta verso l’Altissimo, quindi parte di uno stesso gruppo scultoreo) una sola figura che – non a caso – supera, va oltre la norma dello spazio estremo dell’arco destinato all’Onnipotente (fig. 22).
Vegliardo, l’Onnipotente,la Grande Prostituta
Nei tratti iconografici si discosta visibilmente dai Vegliardi: difetta della tunica ed è avvolta in un ampio, ricco manto con robusta bordatura, che le copre le spalle. Trattiene tra le mani qualcosa che potrebbe essere un otre[42]. Ha le gambe scoperte che, associate al manto, altro tratto iconografico determinante, suggeriscono un’idea di fastosità e dissolutezza insieme. È la Grande Prostituta “ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle” che “teneva in mano una coppa d’oro,” – qui un probabile otre per distinguerlo dalla coppa, attributo dei vegliardi – “colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione”[43]. Difetta della bestia sulla quale, secondo il racconto apocalittico, sedeva, ma la sua presenza è intuibile per gli esiti della sua azione nefasta. “Le dieci corna che hai veduto” – attesta l’Angelo a Giovanni – “come pure la bestia, prenderanno in odio la Meretrice, la lasceranno desolata e nuda”[44]. Così, come l’artefice di questo rilievo la ritrae. In altro passo dell’Apocalisse è lo stesso Angelo che meglio definisce la Prostituta: “La donna che hai vista simboleggia la città grande, che regna su tutti i re della terra”[45].
Per più ragioni, sulle quali non si ritiene utile insistere in questa sede, molti esegeti ritengono che quella città sia Roma e l’allusione sia a quella Chiesa di Roma che, invece di perseverare nella fedeltà a Cristo, suo sposo e redentore, Lo rinnega per concedersi in braccio al mondo[46]. “La grande prostituta fa sfoggio della propria opulenza, nascondendo sotto un lusso sfacciato il vuoto spaventoso della sua abiezione”[47]. Si colloca fisicamente e metaforicamente al di là dell’Onnipotente perché Gli ha anteposto i falsi idoli della mondanità. Guarda a Lui, ma in un gesto di ipocrita liberalità porge a tutti un calice d’oro (l’otre), colmo degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione.
Particolare dell’Onnipotente e della Grande Prostituta
Mensola di imposta dei sottarchi della bifora con le protomi di Barisone ii de Lacon-(Gunale) e del figlio Costantino ii de Lacon-(Gunale)
La lunetta dell’archivolto è occupata da una formella con ruota centrale (oggi sfondata), tra decorazioni di tipo arabizzante, che allude alla radiosa luminosità del Divino (fig. 23). Gli archi della bifora presentano un sopracciglio con motivi a losanghe decrescenti alle estremità; nello sguscio di quello di sinistra sono decori a foglie d’acanto a cespi alternati, mentre nell’archetto di destra sopravvive un tratto di racemo ancora a foglie d’acanto, simbolo di rinascita[48]. Nella mensola di imposta su cui scaricano gli archi, è una copia di protomi umane coronate, nelle quali si sono di recente riconosciuti i ritratti di Barisone II de Lacon-(Gunale), giudice di Torres (1154 - ante 1191), e del figlio Costantino II de Lacon-(Gunale), associato al trono nel periodo 1170-1190 circa, quando veniva portata a compimento la fabbrica del S. Antioco[49] (fig. 24). Il sovrano ha volto ovaloide e in capo una corona detta “muraria” o “turrita”, dalla quale emerge frontalmente, con poco slancio e minimo aggetto, la torre emblema del Giudicato di Torres[50]. A destra, Costantino è come un giovane dal volto ben levigato e imberbe, cinto di una semplice corona a sezione circolare, per essenzialità accostabile al circulus ferri che anima la Corona Ferrea, forgiata, secondo tradizione, con uno dei chiodi della crocifissione del Cristo e considerata l’immagine del concetto teocratico di rex gratia Dei. La loro stessa collocazione è studiata e puntuale: in asse con l’Agnello, all’interno di un archivolto associato all’idea della volta celeste, dove spesso siedono le teste coronate del Medioevo giudicale[51].
[1] G. Spano, Chiesa cattedrale dell’antica Bisarchio, «Bullettino Archeologico Sardo», n. 6, anno VI, giugno 1860, p. 85.
[2] D. Scano, Storia dell'arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari-Sassari 1907, p. 209.
[3] R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 154-155.
[4] La proposta cronologica sulla costruzione della galilea è dello stesso Delogu (cfr. R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, cit., pp. 154-155).
[5] P. Sanpaolesi, Il Duomo di Pisa e l’architettura romanica toscana delle origini, Pisa 1975, p. 53 e ss.
[6] R. Serra, La Sardegna, X, coll. “Italia Romanica”, Milano 1989, p. 267.
[7] R. Coroneo, Architettura romanica dalla meta del Mille al primo’300, coll. “Storia dell’arte in Sardegna”, Nuoro 1993, p. 93.
[9] G.G. Cau, Il Santo Stefano barbato e il capitello del Trionfo del Cristo sul basilisco del Sant’Antioco di Bisarcio, in «Quaderni Bolotanesi» n. 38, Cagliari 2012, pp. 159-178.
[10] La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, http://www.sardegnamedievale.it..., cit.
[12] R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ’300, cit., p. 93.
[13] F. Poli, La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, cit., p. 183.
[15] La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, ante XI sec., attribuita a maestranze di cultura romano-barbarica, marmo, cm 30 x 40 circa, Olbia, basilica minore di San Simplicio, cfr. G.G. Cau, Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…. Il ritratto litico del giudice committente in talune chiese dell’Arborea e di Torres, tra XII e XIV secoli, «Theologica & Historica Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», xxiii (2013), pp. 291-292.
[16] M.C. Cannas – G. Pisano, L’Apocalisse, ora. Il Maestro del capitello con scena apocalittica del San Pantaleo di Dolianova, Cagliari 2003, p. 17.
[17] R. Serra, In figura Christi. Storie della salvezza nella pittura e nella scultura romaniche in Sardegna, in Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, Cagliari 1998, pp. 127-128, 137, fig. 9. La lettura della Serra non è condivisa da Maria Cristina Cannas e da Giacomo Pisano per la frammentarietà e decontestualizzazione del rilievo rinvenuto nel corso della demolizione del prospetto barocco della facciata del duomo di Cagliari (cfr. M.C. Cannas – G. Pisano, L’Apocalisse, ora…, cit. , pp. 17-18).
[18] G.G. Cau, La Formella longobarda e la Protome romanica del Martire sulcitano nel Sant’Antioco di Bisarcio, «Annali di Storia e Archeologia Sulcitana», 2015, IV, pp. 122
[19] R. Serra, Gli affreschi romanici della chiesa di San Nicola di Trullas a Semestene, in Medioevo: i modelli. Atti del Convegno internazionale di studi, Milano 2002, pp. 581-591.
[22] L’immagine dell’Agnello mistico ha, nella scultura sarda medioevale, un precedente nell’inedito rilievo dell’Ecce Agnus Dei qui tollit peccatum mundi (un cinghiale emblema del peccato e l’Agnus Dei con croce commissa, interposto a due oranti), sulla fronte della base a sinistra del portale principale del San Lussorio di Fordongianus (1100-20), (cfr. G.G. Cau, La Formella longobarda e la Protome romanica del Martire sulcitano nel Sant’Antioco di Bisarcio, cit., pp. 135-136 nota 83). Una ripresa dello stesso soggetto dell’Agnus Dei con gli attributi della croce commissa e del vessillo pasquale, si registra in una formella sul portale della chiesa campestre di San Serafino presso Ghilarza (post 1353) (cfr. cfr. G.G. Cau, Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…. Il ritratto litico del giudice committente in talune chiese dell’Arborea e di Torres, tra XII e XIV secoli, cit., pp. 277-278.
[24] F. Poli, La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, cit., p. 184.
[26] Ap 4, 2. Per una più facile lettura si è ritenuto opportuno stabilire una corrispondenza numerica tra l’immagine dell’intero archivolto e le singole figure richiamate di volta in volta nel testo.
[33] Ibi, 12, 7. Una delle più antiche figurazione dell’Angelo che trafigge il drago, quella della Formella longobarda del San Michele pesatore di anime (IX-X secolo), del Trono Reale, del santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, è stata associata, per talune corrispondenze di modi e di forme, al rilievo del S. Antioco longobardo della chiesa bisarcense (cfr. G.G. Cau, La Formella longobarda e la Protome romanica del Martire sulcitano nel Sant’Antioco di Bisarcio, pp. 105-139).
[37] La verga sardesca è simile a quella impugnata dal Cristo-cacciatore nell’Allegoria del trionfo del Cristo-cacciatore sul Maligno-cinghiale che assalta l’ariete guida dell’umano gregge, nel capitello della quinta lesena del fianco meridionale del San Pietro di Zuri (1291) (cfr. G.G. Cau, Architrave gotico aragonese di Boroneddu, «Sardegna Antica», a. XXI, n. 42, Nuoro, ii sem. 2012, pp. 22-25).
[41] L’immagine antropomorfica dell’Altissimo ha, nella scultura sarda medioevale, un precedente nel primo rocchio sopra la base semicircolare della semicolonna sinistra dell’abside della chiesa di San Lussorio di Fordongianus (cfr. G.G. Cau, La Formella longobarda e la Protome romanica del Martire sulcitano nel Sant’Antioco di Bisarcio, cit. pp. 135-136 nota 83).
[46] C. Della Valle, Apocalisse di Giovanni, Ipotesi e riflessioni, (s.l.) 2006, p. 330 e ss.
[47] M. Rastrelli S. J., Meditazioni su l’Apocalisse, Assisi 1976, p. 227.
[48] «Presente dall’antichità nella decorazione architettonica come simbolo di immortalità; nel cristianesimo [l’acanto] è segno di resurrezione» (cfr. C. Muscolino, Il Tempio Malatestiano di Rimini, Ravenna 2000, p. 81).
[49] G.G. Cau, Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…, cit., pp. 289-290.
[50] In precedenza si è scritto di un graffito della torre all’interno di quella che appare oggi come una torre della corona turrita. Immagini più dettagliate non hanno smentito ma solo affinato quello stesso concetto evocativo del nome del giudicato, cfr. G.G. Cau, Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…, cit., p. 289.
[51] Sulla collocazione architettonica del ritratto del giudice committente, si veda il saggio di G.G. Cau, Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…… cit., pp. 274-275.
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