Concetta delle sedieConcetta costruiva e vendeva sedie, per questa ragione era soprannominata "Concetta delle sedie". Abitava a Mandas, in provincia di Cagliari ed una volta al mese, incurante del clima, arrivava ad Escolca a piedi di buon mattino, attraverso una scorciatoia che dalla campagna di Mandas conduce alla grande quercia, poco prima del Cimitero. Vestiva abiti modesti e calzava scarpe chiodate. Aveva un grembiule che piegava su sé stesso in modo da formare una grande tasca simile a quello che usavano le spigolatrici e lì dentro introduceva tutto ciò che le veniva dato da chi non poteva pagarla in danaro. Tra le tante cose che mi stupivano di lei, due mi lasciavano senza fiato: la prima era il carico di sedie che riusciva a sopportare. Ne aveva sempre dieci, sei sulla testa, sovrapposte una sull'altra e due per ogni braccio; l'altra era il suo modo di camminare, eretto e spedito, mentre se la cantava felice e beata. Camminava e cantava cadenzando il passo secondo il motivo della canzone e l'orlo della sua gonna, lunga e plissettata, s'apriva e si chiudeva, da un tacco all'altro, in un curioso gioco di colori da far pensare ad una fisarmonica tra le mani d'un esperto musicista. Concetta mi piaceva molto e lei l'aveva capito. Ricordo un stornello che cantava per indurre la gente a comprare le sue sedie: Le mie vacche sono magre per aver mangiato euforbia taci cuore mio non pianger che di certo sarò tua. Un giorno mi chiese se avessi gradito accompagnarla dai clienti del paese per consegnare la merce che le avevano ordinato. Fu così che diventammo amiche. Era sposata e senza figli. Il marito, noto per la sua bontà, si chiamava Antonio ed era alto e di bella presenza con dei lunghissimi baffi, candidi come la sua barba ed i suoi capelli e lei lo chiamava, scherzosamente, "San Pietro" che per la verità gli assomigliava davvero. Un mattino di primavera, Concetta mi portò per la prima volta nella sua casa. Ricordo, se la memoria non m'inganna, che fosse poco distante dal mulino del paese. Tra le grosse pietre vulcaniche che cingevano il cortile, piccoli ciuffi di Sedum già in fiore spiccavano cullandosi al vento, mutando al contatto coi raggi del sole, il loro verde intenso in un rosa sbiadito. Al centro di quella stupenda cornice, all'ombra di una pianta di limoni, calzata di basilico da sposa, il cui profumo si espandeva sino alla strada, sedeva Antonio affaccendato a costruire ceste e sporte per la vendemmia. A quei tempi nelle case dei poveri, dal cortile si accedeva direttamente alla cucina perché il loggiato era roba da ricchi. Una rastrelliera di legno di pero selvatico, verniciata d'azzurro ed arricchita dal verde intenso delle foglie di melo cotogno dipinte a mano, custodiva in bella mostra, vassoi e piattini di sughero, tazzine, scodelle e minuscoli bicchieri. L'uso di questo piccolo tesoro, patrimonio d'una cultura semplice ed antica, era riservato esclusivamente alle feste di casa: come nascite, battesimi, cresime e matrimoni. Sulla parete del camino una corda di spago, annodata da parte a parte a due grossi chiodi, sosteneva coperchi, mestoli e schiumarole. Nella stanza del pane, troneggiava, accuratamente ricoperta da un telo di orbace, la tavola e con essa i recipienti, piani e fondi in ordine di misura e dalla forma rotonda, interamente costruiti a mano da artigiani del luogo esperti nella lavorazione del fieno. (Ancora oggi ad Escolca, Battista e Simonetta, marito e moglie da sessantanni, si dilettano in questo antico mestiere). Tale corredo, indispensabile per le massaie d'allora, veniva portato, obbligatoriamente, qualunque fosse il ceto sociale di provenienza, in dote dalla sposa, poiché ella da sola aveva il compito di provvedere a fare il pane per tutta la famiglia. Tale lavoro richiedeva tempo, fatica e soprattutto la piena conoscenza del grano. I recipienti di Concetta, lisi dall'uso ma non logori, palesavano con quanta capacità, esperienza e cura, ella esercitasse quel sacro dovere di trasformare con le mani il grano in pane. La sua stanza da letto profumava di caramelle: -Adesso -mi disse- ti mostro il meglio che ho comprato per chi non ho avuto. Invitandomi al silenzio chiuse la porta, mise una scala contro la parete, mi prese a cavalcioni sulle spalle e salimmo in soffitta: -Guarda qui, bellissima bambina - sussurrò, mettendomi giù. Anche nella mia casa c'era la soffitta, ma né io né i miei fratelli potevamo salirci senza il permesso di nostra madre. Quel giorno ho capito il perché! La soffitta era il nascondiglio segreto delle mamme. Le braccia di Concetta mi stringevano a tal punto che cercai di liberarmi. -Non temere, tesoro, Concetta ti vuole bene. -Io non ho paura, è che mi state soffocando. Un sorriso le illuminò il volto appena arrossato per l'imbarazzo d'essersi trattenuta un po' troppo nell'abbraccio. Senza lasciarmi la mano, aprì un baule e ne tolse, porgendomelo, un involucro ingiallito dal tempo: -Tieni, figlia mia, questo è per te! -Cosa c'è dentro? -Non te lo dico! Quando torni a casa tua lo saprai, però promettimi che quando lo aprirai sarai da sola. Era una promessa difficile da mantenere, avevo tre fratelli e due sorelle, uno più ficcanaso dell'altro. Sarei potuta andare dalla nonna, ma aveva l'abitudine di spifferare tutto a mia madre. Concetta voleva che nessuno lo sapesse ed io avevo promesso. L'involucro era voluminoso e così ben sigillato ch'ebbi bisogno di un paio di forbici per poterlo aprire. Lo feci la notte stessa con le forbici da sarta di mia madre che, poi, me le diede di santa ragione per non averle chiesto il permesso. Ah! Se le mie sorelle avessero visto quella bellissima bambola, me l'avrebbero sottratta. Ecco perché Concetta non voleva che altri lo sapessero. Spesso ripercorro con la memoria quello squarcio di tempo e dal cuore di Escolca, cullato dai respiri del vento, la voce di Concetta che ha sconfitto il tempo, si solleva chiara ripetendomi un canto: "Taci cuore mio non piangere."
Teresa Piredda Pacioni (Escolca)
1° premio 2005 (Sezione prosa «Angelo Dettori»)