Il cimiteroAl giorno d'oggi i bambini sono troppo reclusi, stanno per ore dentro quattro mura davanti alla televisione o al computer, non sanno più giocare, sono già quasi vecchi da piccoli. La modernità cerca per loro mille invenzioni, purché non diano fastidio. Una volta, quando io ero piccola, era diverso,di televisioni ce n'erano molto poche ed i giocattoli erano molto scarsi, ma ci divertivamo con piacere per tutto il giorno. I ragazzi maschi e femmine, come fratelli, si sparpagliavano per la strada da presto,stavamo in giro fino all'ora di cena, senza alcun pericolo e senza alcuna preoccupazione se non di giocare. Io ero un po' di poco cervello e maschiaccio, e sotto i piedi mi sembrava di avere dei chiodini.. in ogni cosa trovavo il divertimento e oltre tutto avevo anche il cuore tenero. Quando mi assaliva la tenerezza e la voglia di distrarmi, con Lellena la mia amica del cuore, mi recavo al cimitero a pulire la tomba di uno zio di mia madre, che non ho mai saputo da che parte. Dall'ingresso salutavo zio Peppe, un grande uomo di pietra, che era stato il padrone del mio paese e i due buoi che gli facevano la guardia. Finché non sono diventata più grande, ho sempre creduto che il cimitero fosse suo. Lui era sistemato meglio degli altri. A parte qualche piccola lapide e pochi loculi tutti attorno, gli altri morti erano alloggiati sotto un cumulo di terra, con sopra una croce di legno. Fatto sta, che il terreno non era molto grande, di gente ne moriva ogni tanto e succedeva che il becchino doveva rimuoverne qualcuno da terra, morto da anni, per far posto e buttava le ossa in una casetta profonda un paio di metri. Io non so neanche adesso, perché non li raccogliesse tutti, io trovavo sempre qualche pezzo d'osso e lo lanciavo dentro quella casetta, sempre aperta, perché il finestrino era vecchio e sgangherato. Sembrava che fosse il mio cuore a dirmi che non era giusto lasciarli sparpagliati e ogni volta con pazienza, li raccoglievo ad uno ad uno e li ammucchiavo dentro il mio grembiule. Giravo sempre per tutto il cimitero, raddrizzavo le croci cadute, strappavo qualche erbaccia secca e accendevo i lumicini spenti. A Lellena tutto faceva ribrezzo, non toccava mai niente, non raccoglieva un oggetto da terra e quando si stancava di starmi dietro, rientrava a casa e mi lasciava lì. Nella ricorrenza di Ognissanti, la pietà per quelle povere ossa dimenticate mi struggeva il cuore e allora racimolavo qualche fiore, un po' dappertutto e lo gettavo dentro la casetta. In quei due giorni, perché non c'erano lezioni a scuola, avevo il tempo di andarci mattina e sera. Ogni tanto però, quando mi era possibile Coltivavo un altro divertimento:passavo il tempo a masticare cera. Rovesciavo i lumicini ad uno a uno, mi facevo colare la cera ben calda nelle mani e la masticavo come spalmata di miele. Quando il becchino mi vedeva entrare in quel luogo santo, gli si rizzavano i capelli e agitando le braccia, urlava intimandomi di andare via e immediatamente mi dava il benservito. Io scappavo velocemente, mi nascondevo un pochino, lo controllavo fino a quando raggiungeva la parte più bassa e rientravo ancora più contenta. Una volta proprio di Ognissanti, pressappoco avevo una decina d'anni, era successo,appena entrata, che avevo dovuto far rientro a casa alla svelta perché ero stata assalita da un freddo tale che mi faceva suonare i denti come dei sassolini. Proprio il giorno Lellena non voleva veramente saperne di rientrare a casa e, poiché aveva paura di rimanere lì da sola, mi aveva seguito recalcitrante. A casa non c'era nessuno, la porta era aperta, e mi ero seduta pesantemente su una cassapanca che arredava l'ingresso. Dal freddo tremavo come un giunco e la testa mi bruciava come un braciere acceso. Cercando un po' di calore, mi ero avvicinata a Lellena che, pensando che fosse un altro dei mie scherzi, mi aveva scansato contrariata. Nel frattempo era rientrata mia madre, io ero paonazza e con gli occhi incavati tremavo dalla testa ai piedi. Per quanto si era spaventata in men che non si dica aveva fatto venire il medico. Avevo la febbre oltre i quaranta gradi e a quel sant'uomo erano bastate solo poche domande e un'occhiata per indovinare subito la mia malattia e come l'avevo contratta. Avevo le mani nere quasi come il muso. Per colpa dei miei vizi, avevo contratto il tifo e, per mia sfortuna, dovevo fare una iniezione al giorno per almeno un mese. Ogni mattina come obbligato da qualcuno, e lo ricorderò per tutta la vita, il medico arrivava quando stavo appena cominciando la colazione. Oltre che provavo dolore , quella medicina maleodorante mi arrivava in profondità al naso e alla gola e non riuscivo più ad ingoiare niente per tutta la mattina. Da allora non mi è più passata per la mente l'idea di trasportare ossa e mai più avevo toccato cera al cimitero. A casa però, di nascosto in camera da letto, mi era ricapitato, sempre di Ognissanti, ma mia madre mi aveva colto sul fatto e mi aveva fatto dimenticare anche il suo sapore.
Maria Gioconda Fiori (Usini)
3° premio 2005 (Sezione prosa «Angelo Dettori»)